
Drammaturgia di Umberto Orsini e Luca Micheletti
Dal romanzo di Fëdor M. Dostoevskij
Con UMBERTO ORSINI
Regia LUCA MICHELETTI
Scene Giacomo Andrico
Costumi Daniele Gelsi
Suono Alessandro Saviozzi
Luci Carlo Pediani
Assistente alla Regia Francesco Martucci
Produzione Compagnia Umberto Orsini
Durata dello spettacolo Atto unico 70 minuti
Il cuore drammaturgico e registico di queste nostre Memorie di Ivan Karamazov è quello d'una sofferta e sibillina riflessione sull'identità. Assumendo il romanzo come nucleo mitologico "a monte", ci siamo chiesti chi sia Ivan. Un personaggio, d'accordo. Ma anche l'incarnazione romanzesca di un nodo ideologico cruciale e, quindi, un alter ego dell'autore… Ivan è una creatura narrativa che, nonostante le diffuse connotazioni che lo descrivono e le molte pagine che Dostoevskij gli dedica, sfuma nell'imprendibile: è la maschera e il pretesto di logiche segrete, negate. È un protagonista che si sottrae alla centralità, individuo che si rifrange in una pluralità di riflessi cangianti, è un'invenzione sospesa, quasi incompiuta. Identità plurime e osmotiche, cui nel nostro caso se ne affiancano anche altre, di natura metateatrale. Sì, perché il nostro Ivan è anche un personaggio-ossessione, che accompagna cinquant'anni di carriera di un mirabile "capitan Achab" della nostra scena, un attore che insegue la sua balena enorme e veloce, la arpiona e si lascia trascinare… dapprima in uno sceneggiato-feticcio che la RAI manda in onda nel 1969, poi in diverse incursioni sottotraccia che sfociano in uno spettacolo sul solo "Grande Inquisitore" di un decennio fa, e ora in questo confronto a tu per tu con l'intera parabola romanzesca di Ivan, che è anche una personale ricapitolazione di luoghi e memorie. Ivan e Umberto, il personaggio e l'attore che lo incarna, osservano la loro storia, esplorano i loro ricordi, riascoltano le loro testimonianze a più voci (che sono poi sempre una sola, quella di Orsini, che risponde oggi alla sua voce di cinquant'anni fa… incredibile occasione!), celebrando un accorato e solitario processo di sincronizzazione interiore. Dostoevskij abbandona Ivan al suo destino dopo il processo per il parricidio: è sembrato interessante ripartire da lì, dal processo. Prigioniero di quell'aula, di un finale mai scritto, di una sentenza sbagliata, il nostro Ivan continua ad aggirarsi tra i frammenti della sua esistenza, osservati come prove materiali di fatti e memorie che riemergono a strappi, negli spazi di lucidità che gli concedono le febbri cerebrali, nel circolare affastellarsi di teorie e ricordi, in un girotondo giudiziario kafkiano e grottesco, sempre meno reale, che inesorabilmente scivola nell'ultraterreno.